Intervista di Alice Manieri

Roberto Rizzo nasce a Cernusco sul Naviglio (Milano) nel 1967. Frequenta il liceo artistico e si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. È un pittore.

“Ho iniziato molto giovane a dipingere. Ciò che mi ha più formato è stato il liceo artistico dove ho avuto come insegnanti artisti veri, persone ancora legate all’idea di arte come impegno. Politico, intellettuale e umano.
Durante l’accademia e negli anni successivi mi sono formato in un contesto condizionato dall’idea postmoderna di disimpegno. È nata in quel periodo la parola d’ordine degli ultimi anni, “contaminazione”, che non è nient’altro che la parodia inconsapevole e confusa dell’utopia umanistica e della sua versione moderna espressa dalle avanguardie artistiche del Novecento.”

Come è avvenuta la conciliazione tra due filosofie pittoriche così distanti? Cosa intendi per Arte come Impegno?
Non c’è conciliazione. C’è stato un momento in Italia in cui il dibattito artistico, come qualunque altro dibattito, è stato condizionato da quello politico-ideologico. Intendo gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. All’inizio deve essere stato molto interessante ma poi è diventata, più che altro, una questione di potere, d’egemonia, prima culturale e poi economica. Si pensava seriamente che in una nuova società ci dovesse essere una nuova arte libera e totale, senza specializzazioni come quella del pittore. La nuova società non è arrivata, ma la nuova arte sì. Non è né libera né totale ma, piuttosto, superficiale e incolta. Negli anni ’80 i campioni dell’arte rivoluzionaria hanno imparato a cavalcare il nuovo mercato dell’arte. Alla pittura è stato permesso di sopravvivere a patto che non disturbasse troppo. Si dice che la storia la fanno i vincitori. Sono loro che interpretano il passato e costruiscono i paradigmi del presente. Il presente però non è un granché. Forse è arrivato il momento di rivedere alcune cose.

Cosa intendi esattamente per impegno?
Parlo di un impegno più umano che ideologico. La volontà di andare a fondo alle cose, di non fermarsi sulla superficie del reale. Significa, nel mio caso, sentire la responsabilità del confronto con lo spazio con cui mi misuro, con il quadro.
Spesso si considerano impegnate opere che esprimono contenuti sociali o politici, ma il più delle volte sono solo veicoli strumentali che non incidono per nulla sulla realtà umana.
Per me impegno è lavorare sulle strutture del linguaggio e della percezione umana, sul rapporto tra lo spazio del mio agire e il contesto che lo contiene.

Essendo per te il contenuto dell’opera d’arte indipendente dallo strumento atto a realizzarla, hai mai sperimentato nuovi mezzi?
Io sono una persona curiosa e sono attratto da tutti i linguaggi dell’arte. Ma non mi piace essere superficiale, non potrei improvvisarmi artista video da un giorno all’altro, senza esperienza e studio. So che di questi tempi va di moda il dilettantismo, ma io non sono così. Io sono un pittore. Un pittore di quadri.
Il quadro è uno spazio fisicamente relativo ma idealmente assoluto. Non mi interessa superare lo spazio del quadro, quello che mi interessa è indagare i suoi limiti. Se mi definiscono pittore astratto certo non me la prendo. Ma sapendo che le vere ragioni della pittura risiedono nel suo livello riflessivo piuttosto che in quello rappresentativo e considerando l’opposizione figurativo/non figurativo un argomento superfluo, preferisco considerarmi solo un pittore.

Possiamo dire che la tua ricerca è proprio quella degli infiniti possibili?
Si, mi piace, mi sembra molto pragmatico.
Voglio dipingere la pittura che viene dopo l’azzeramento della pittura monocroma. Voglio ricostruire, senza rimuoverla, l’esperienza decostruttiva dell’arte del ’900.

Non hai mai chiamato le tue opere arte e tanto meno ti sei mai sino ad ora definito artista, come mai? È una definizione che rifuggi?
Oggi sono tutti artisti, è ridicolo. Io sono un pittore e questo per me è sufficiente. Se sono un artista lo devono dire gli altri, lo dirà la storia.