Roberto Rizzo, “Il quadro come dispositivo (prima che come oggetto)”
Testo inedito, 2019
Il quadro come campo di ricerca della dimensione assoluta nella pittura
Il concetto di dispositivo implica una tale complessità di argomenti di studio che non pretendo certo risolvere qui, lasciando volentieri elaborare questa ricerca a chi ha adeguati strumenti teorici per poterlo fare. Mi permetto però di adoperare il termine dispositivo per provare a ricostruire una personale storia dello spazio convenzionale della pittura, il quadro, con una prospettiva diversa dal solito, vale a dire come meccanismo o processo prima che come oggetto.
Vi parlerò dunque di pittura e di assoluto. Due argomenti piuttosto desueti di questi tempi, dei quali però secondo me è necessario parlare quando si parla di arte. Sono come quei pilastri della casa che si pensa di potere eliminare senza conseguenze in una ristrutturazione perché considerati superflui. Ma che scopriamo essere fondamentali quando la casa, senza di essi, non sta in piedi.
La dimensione assoluta dell’arte, o la sua aura, è messa in discussione da parecchio tempo. I motivi sono tanti e molti di loro sono giustificati. Ma è necessario ricordare che al centro del concetto di arte, nella tradizione culturale da cui veniamo, c’è sempre stato il concetto di assoluto. Ormai il territorio dell’arte non appartiene più solo alla cultura occidentale, è globale e comprende realtà geografiche ed economiche molto differenti e variegate. Malgrado ciò la sacralità dell’opera d’arte, la sua aura, resiste ancora manifestandosi in una forma diversa rispetto al passato, ma indispensabile per entrare nel luogo di culto per eccellenza della contemporaneità, vale a dire il mercato dell’arte.
Anche per questo motivo, parlare di pittura significa parlare del linguaggio artistico che, forse più di tutti, contiene in sé la capacità di raggiungere la dimensione assoluta nell’arte.
Credo che valga la pena tornare a riflettere sullo spazio convenzionale del quadro e sulla complessità di significati che esso porta con sé, malgrado la sua apparente semplicità.
Il quadro è un oggetto che si associa all’attività pittorica e si dà per scontato nella sua funzione di supporto della pittura. Ma l’atto di dipingere non è sempre stato e non è, tuttora, sempre rivolto a questo oggetto familiare e convenzionale.
Nella storia (e nella preistoria) l’essere umano ha dipinto su superfici di tutti i tipi. Superfici naturali e artificiali, d’arredo e architettoniche, bidimensionali e tridimensionali, uniformi e irregolari. Con tutte queste superfici il pittore si è sempre dovuto confrontare per superare ostacoli d’ordine tecnico e organizzativo dati dalle loro proprietà fisiche, materiali e spaziali. Maggiori erano gli ostacoli da superare e più il gesto pittorico era subordinato alla superficie data.
Maggiormente composita e imprevedibile era la superficie da dipingere e più il gesto pittorico era decorativo, nel senso di ornamentale, o subordinato. Più semplice era la superficie da dipingere e più il gesto del pittore si avvicinava a quello che era l’obiettivo principale: trovare la dimensione assoluta della pittura. Per questo il quadro è un oggetto così semplice, per distrarre il pittore il meno possibile dal suo obiettivo: definire, attraverso l’esperienza del dipingere, il campo di ricerca della dimensione assoluta della pittura.
L’assoluto, in pittura, lo si può trovare all’interno dello spazio relativo del quadro. È un processo di riconoscimento del concetto di assoluto realizzato da parte di un soggetto limitato quale è l’essere umano. Per questo tale riconoscimento può avvenire solo all’interno di uno spazio relativo come quello del quadro.
All’interno del concetto di arte possiamo trovare tutto e il suo contrario. Questo succede da sempre, da quando esiste l’arte, appunto. Vi possiamo trovare proprietà come il bello, il piacevole o il ben fatto. Ma ciò verso cui l’arte ha sempre cercato di tendere, avvicinandosi a volte di più e a volte di meno, è la dimensione assoluta. Una dimensione che, nella storia, si è manifestata attraverso la sua aura. Un’aura sacra, se in contesti religiosi o economica, se in contesti più materialistici.
L’aura dell’opera d’arte, ogni volta che è stata dichiarata persa, è sempre tornata poi sotto un’altra forma.
Origine del concetto di quadro precedente all’invenzione dell’oggetto quadro
Il linguaggio della pittura esiste da quando esiste l’essere umano. I suoi strumenti sono rimasti più o meno gli stessi, in apparenza, anche se si sono evoluti nel tempo con il progresso tecnico e tecnologico. Esiste un’evoluzione tecnologica anche nella pittura, ma è meno evidente che in altri linguaggi artistici perché è più lenta – in quanto la storia della pittura è lunghissima – e perché il suo processo di esecuzione, cioè l’atto del dipingere, nel tempo è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Il quadro, inteso come supporto per la pittura così come lo intendiamo oggi, con la tela stesa su un telaio, è nato durante il XV secolo. Uno spazio autonomo e mobile, uno spazio idealmente assoluto e fisicamente relativo.
La pittura pare invece che sia nata nella preistoria, più di trentamila anni fa, come traccia del passaggio umano. Ma soprattutto come segno di occupazione dello spazio umano, come definizione di un centro, come processo di negoziazione con un luogo per la circoscrizione di un campo vitale. Un campo di ricerca della dimensione assoluta.
L’assoluto di cui voglio parlare è un assoluto umano. Un assoluto che sta all’interno del relativo e non viceversa. Un assoluto che non è dogmatico e finalistico ma dinamico e dialettico.
Cerco di spiegarmi meglio, se il quadro, prima di essere un oggetto, è un dispositivo di ricerca della dimensione assoluta nella pittura, allora l’origine del concetto di quadro è precedente all’invenzione dell’oggetto quadro.
Per la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, edificata nel XVI secolo, nel 1564 Tintoretto fu incaricato di “decorare” la Scuola. Ho usato il termine “decorare” non a caso, non per indicare un intervento di abbellimento superficiale di una superficie o di uno spazio ma per indicare un intervento artistico strutturale, attraverso il linguaggio pittorico, di una grande opera ambientale. Un’opera che oggi definiremmo un’installazione ambientale permanente. I “teleri” che compongono questa grande opera ambientale furono realizzati da Tintoretto tra il 1564 e il 1588. Il telero è una delle varianti dell’oggetto/quadro che nacque proprio a Venezia in quel periodo. Queste grandi tele dipinte a olio si sovrapponevano alle pareti degli edifici per i quali erano ideate e permettevano di non dipingere direttamente sulle pareti in una città tra le più umide al mondo. Essi sostituivano la pittura murale che altrimenti sarebbe stata soggetta ad un rapido deterioramento.
Questo cambia la prospettiva con cui pensiamo al quadro, non più solo come oggetto di arredo ma come vera e propria superficie ambientale.
Il capolavoro realizzato da Tintoretto è un’opera molto complessa che possiamo vedere sia nella sua totalità sia parzialmente nelle singole opere pittoriche che la compongono. È come se esistessero diversi livelli di percezione dell’opera – di autonomia dell’opera – ogni volta che ci concentriamo su un oggetto più o meno grande che può essere l’intera Scuola di San Rocco oppure una delle sale, oppure una delle pareti delle sale, oppure ancora uno dei teleri o uno dei quadri che si trovano all’interno della Scuola.
Diciamo che è come se la dimensione assoluta dell’opera, la sua autonomia o la sua autosufficienza si ampliasse o si riducesse in relazione alla nostra percezione. Perché la pittura ha sempre cercato di definire uno spazio autonomo all’interno di uno spazio ambientale più grande. La porzione di superficie ambientale dipinta, fissa o mobile, anche quando è una tra le tante presenti in un ambiente, è ogni volta un campo di ricerca della dimensione assoluta della pittura.
L’equivoco del “superamento della pittura” nell’arte contemporanea
Negli ultimi anni la pittura è tornata ad essere più presente nelle mostre e nelle fiere d’arte contemporanea. Si vedono per lo più quadri narrativi e decorativi, molto spesso realizzati da artisti che raccontano lo stesso soggetto anche attraverso altri linguaggi artistici più tecnologici come la fotografia e il video. Si tratta di una visione della pittura come mezzo più che come fine. Una visione che soddisfa le esigenze del mercato dell’arte ma che lascia sospesa la sua collocazione critica e storica. Perché da un punto di vista critico e storico, nella sua interpretazione dominante, la pittura su quadro è ancora il simbolo della mercificazione dell’arte e, in base a questo, il superamento del linguaggio della pittura sarebbe ancora la condizione necessaria per costruire l’estetica (e l’etica) del futuro. A che cosa si deve questa condizione di sospensione irrisolta?
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso il dibattito artistico si è svolto su un terreno molto politico-ideologico. Si discuteva di come dovesse essere l’arte in una nuova società e addirittura si metteva in dubbio la stessa sopravvivenza dell’arte, secondo errate interpretazioni delle profezie hegeliane. La nuova arte avrebbe dovuto basarsi sulle idee e sulle relazioni comunicative, al di sopra delle specificità dei linguaggi della tradizione artistica, come la pittura o la scultura. Un’arte presente nella vita quotidiana delle persone, non più separata da essa. La riflessione critica di quel periodo coinvolgeva tutta l’arte contemporanea internazionale e coinvolgeva anche l’Italia con due posizioni distinte: quella di Germano Celant, che è risultata vincente e quella di Filiberto Menna, concentrata sul linguaggio specifico della pittura e che oggi è abbastanza dimenticata. Al termine di questo conflitto molto duro e complesso, negli anni Ottanta, la nuova società non è arrivata e oggi il pensiero dominante nell’arte contemporanea somiglia molto ad una parodia di quel dibattito lontano. Oggi il cosiddetto “superamento della pittura” è solo un artificio retorico per giustificare finte posizioni d’avanguardia e una faziosa interpretazione di artisti come Fontana, Burri o Castellani come presunti sostenitori di questo superamento del linguaggio pittorico. Ricordiamo che Fontana non ha mai smesso di dipingere quadri mentre realizzava i suoi ambienti.
La ricerca di questi artisti, secondo me, aveva più a che fare con quella che Rosalind Krauss chiama “reinvenzione del medium”.
Reinventare il medium, reinventare il quadro
Tra la posizione radicale di delimitazione dei confini specifici dei linguaggi dell’arte di Clement Greenberg e la posizione di totale indifferenza dell’arte concettuale nei confronti delle proprietà che costituiscono e differenziano la natura dei diversi linguaggi, troviamo Rosalind Krauss e il suo concetto di “reinvenzione del medium”.
Un processo analitico di indagine sulle origini del linguaggio artistico e la sua reinvenzione attraverso la costruzione di un nuovo sistema di regole.
Un percorso suggestivo utile alla mia ricerca personale per una riformulazione del linguaggio pittorico attraverso la reinvenzione del suo supporto, il quadro. Il quadro che, attraverso un processo di indagine sulla sua origine funzionale, viene reinventato (non superato) in quanto dispositivo con un differente sistema di regole e proprietà. Un percorso di ricostruzione del processo di decostruzione del Novecento con il quale desidero riconnettermi alle ricerche sullo spazio convenzionale del quadro e sul linguaggio della pittura realizzate da artisti come Lucio Fontana, Alberto Burri, Francesco Lo Savio e Enrico Castellani. Ricerche sui limiti spaziali e semantici del quadro, dove il medium pittorico fu reinventato – e non superato – e che furono interrotte da quella sospensione temporale di cui parlavo prima che dura ancora oggi.
Il medium come mezzo e come fine
Il concetto di reinvenzione del medium di Rosalind Krauss ci può aiutare a trovare una via d’uscita dalla condizione di sospensione irrisolta nella quale ci troviamo. Una condizione motivata da alcune cause che provo a descrivere:
1. Incapacità della pittura di uscire dalla gabbia della specificità del medium.
L’attacco subito dalla pittura, durante gli anni di contrapposizione ideologica nella seconda metà del Novecento, ha costretto i pittori a chiudersi in una posizione di difesa autoreferenziale nel recinto della specificità del medium. Le rigide regole dettate da Greenberg hanno continuato a condizionare la pittura anche in seguito, quando essa ha provato a riformarsi in senso analitico e processuale. Una posizione di chiusura che ha lasciato campo libero ai sostenitori del cosiddetto “superamento della pittura” e alla loro interpretazione strumentale di pittori come Pollock, Fontana, Burri e altri in una prospettiva performativa o concettuale. La riduzione del linguaggio pittorico ad un vocabolario limitato composto da pochi strumenti primari, in una ricostruzione storica che ha rimosso la grande quantità e varietà di materiali e supporti utilizzati nella storia della pittura sin dalle sue origini, ha condizionato la ricerca artistica e critica degli ultimi anni.
2. Incapacità dell’arte concettuale di riconoscere l’esistenza di proprietà specifiche incontrovertibili nei diversi medium.
In contrapposizione alla rigida distinzione dei medium in base alla loro specificità materiale, l’arte concettuale ha proposto una visione superiore fondata sull’immaterialità del linguaggio e delle idee. Un’interpretazione dell’arte, completamente indifferente alla componente materiale delle immagini artistiche, che ha funzionato fino a che essa si è concentrata sull’analisi e sulla decostruzione del linguaggio. Quando però, successivamente, l’approccio narrativo ha sostituito quello analitico, l’indifferenza che questa visione dell’arte ha continuato a mostrare nei confronti delle peculiarità dei singoli medium ha ridotto l’arte a mezzo di rappresentazione aneddotica o cronachistica.
3. Riduzione del medium a mezzo nell’arte contemporanea.
È curioso osservare come l’epilogo della storia delle avanguardie artistiche abbia causato un risultato opposto rispetto alle intenzioni iniziali. Se l’obiettivo degli artisti delle avanguardie era quello di liberare l’arte dal vincolo rappresentativo in favore di una maggiore autonomia linguistica, il processo di smaterializzazione che ha accompagnato il percorso di molta arte contemporanea ha finito per riportarla ad essere troppo spesso solo un mezzo di rappresentazione. Paradossalmente, l’esasperazione degli argomenti antiaccademici delle avanguardie artistiche alla fine ha portato alla costruzione di un nuovo tipo di accademismo.
La dimensione assoluta dell’opera d’arte nella tradizione artistica occidentale
In tutto il mondo l’arte ha sempre cercato le proprie origini sacre nell’alterità dell’assoluto o del divino. Prima nel mito, poi nella storia attraverso il suo processo. Fino ai giorni nostri, come coesistenza tra assoluto e relativo.
La dimensione assoluta dell’opera d’arte nella tradizione occidentale, intesa come valore umano permanente nello scorrere del tempo, non può che essere dinamica e dialettica. Diversa dall’icona orientale sempre uguale a sé stessa nello scorrere del tempo.
Il concetto di opera d’arte nella nostra tradizione culturale ha sempre cercato di conciliare due opposti inconciliabili. Un’idea di assoluto dogmatica e immutabile – archetipica se non irrappresentabile – e un approccio dialettico con il processo storico e le sue trasformazioni.
L’opera d’arte è sempre stata nella nostra tradizione una realtà di coesistenza tra assoluto e relativo, tra i concetti estremi di assolutismo e di relativismo. Rifiutando una contrapposizione che, se applicata, condannerebbe l’oggetto artistico ad essere feticcio di culto, in un caso, o superficiale intrattenimento, nell’altro.
Relazione dialettica con la storia nell’arte moderna e sospensione temporale nell’arte postmoderna
Paradossalmente, mi pare che la condizione di sospensione temporale dell’epoca postmoderna abbia interrotto il rapporto dialettico dell’opera d’arte con la storia e, conseguentemente, abbia riportato la dimensione assoluta dell’arte al mito. Per sospensione temporale intendo quella condizione nella quale la critica delle avanguardie artistiche nei confronti della cultura ufficiale è stata sostituita da una convivenza acritica di concetti e valori opposti e da citazioni e accostamenti di fenomeni di altre epoche. Non a caso si è parlato negli ultimi anni di fine della storia, come se il percorso indicato dalle avanguardie ci avesse portato alla fine ad una condizione culturale e sociale ideale o palingenetica. Ma così non è stato, perché la situazione in cui ci troviamo è piena di contraddizioni. Proprio per questa mancanza di coerenza dialettica con la storia la dimensione assoluta dell’arte è tornata al mito, trasformandosi da analitica e riflessiva – come era nelle avanguardie – a narrativa e rappresentativa.
Rimozione della memoria come condizione necessaria per il nuovo e l’originale
Non è un caso che il trionfo del mercato dell’arte coincida con l’età postmoderna. Che la necessità del mercato di trovare ogni volta prodotti nuovi e originali si accompagni al distacco dell’opera d’arte dalla propria memoria storica. L’originalità dell’opera d’arte è un concetto artificiale che può sopravvivere solo grazie alla perdita della memoria personale e collettiva. L’arte ha sempre avuto un rapporto stretto con la propria memoria storica, armonioso se accademica o conflittuale se d’avanguardia. Ma gli artisti hanno sempre avuto consapevolezza della trasformazione dell’arte nella storia. Da un po’ di tempo, invece, l’arte contemporanea non riesce più a confrontarsi con l’arte del passato. Rimane sospesa senza un perché.
Arte come intrattenimento nell’epoca postmoderna
L’arte concettuale, quando è nata, era indifferente alla specificità dei diversi medium artistici perché ciò che le interessava era riflettere sul proprio linguaggio, al di là di ogni implicazione estetica, per smaterializzarsi e diventare pura idea. Oggi l’arte è spesso indifferente alla specificità dei diversi medium artistici, ma lo è perché li considera dei mezzi intercambiabili, utili per comunicare un racconto, per fare dell’intrattenimento.
Purtroppo ai giovani studenti d’arte, negli ultimi anni, interessa più che altro capire come ci si posiziona nel sistema dell’arte. In pratica, aspirano all’omologazione. Questo è l’opposto non solo delle aspirazioni dell’arte d’avanguardia, che voleva cambiare il mondo, ma anche dell’arte precedente alle avanguardie, quando gli artisti aspiravano all’immortalità. Sarò ingenuo, ma credo che l’arte senza utopia non abbia alcun senso. L’arte senza tensione utopica o senza aspirazione all’immortalità è solo intrattenimento. Per avere una dimensione utopica o per essere in grado di connettersi con il suo passato e il suo futuro, l’arte deve avere una prospettiva storica. Che è molto diverso dal raccontare la cronaca o l’aneddoto come succede quando l’arte è solo intrattenimento.